L’Aquila

Maometto II conquista CostantinopoliL’aquila planò sulla città devastata. Aveva fatto molta strada dalle montagne dell’Italia centrale per giungere in quel luogo, spinta solo dall’istinto. Mossa da un forza superiore che esulava dal concetto di coscienza, non provava sentimenti per le persone che morivano sotto di lei, non erano le prime che vedeva soffrire, né sarebbero state le ultime. Ciononostante, si attardò ad osservare dall’alto la capitale in rovina, mantenendosi librata nell’aria dove il fragore della battaglia giungeva solo attutito e non si percepivano i miasmi di una città in decomposizione. Quasi immobile nella brezza marina, assaporò un’ultima volta l’odore di quella città, imprimendo nella memoria i contorni aristocratici di un luogo che presto sarebbe diventato leggendario, chiuso allo sguardo degli uomini e relegato nella memoria di un passato mitico. La sua vista superiore le permise di osservare ogni vicolo e finestra di quella città, di cogliere il terrore dei civili che fuggivano al saccheggio e dei soldati che difendevano le posizioni con rassegnato coraggio, ben sapendo che era preferibile morire lì, con la spada in pugno, piuttosto che finire nelle mani dei vincitori. Mentre osservava la battaglia colse una figura che la colpì. Era per quell’uomo che era venuta. Combatteva con la stessa foga disperata dei suoi soldati. In più, però, era animato da un altra grande forza: la consapevolezza di essere l’Ultimo della sua stirpe. Lo vide battersi come un leone, menando fendenti sempre più stanchi, affondando i calzari nel fango, talmente imbrattati di sangue da coprire il loro color porpora. Lo vide attorniato da formidabili guerrieri armati fino ai denti e agghindati da elmi e corazze di foggia orientale. Osservò l’uomo, esausto, abbattere l’ennesimo avversario, affondandogli la tozza spada nel ventre. Ormai agiva per inerzia, in attesa che tutto finisse, che qualcuno lo colpisse e ponesse fine a un regno tormentato, nobilitato dall’eroico sacrificio finale. Il colpo venne, come spesso accade, per caso. Un affondo scoordinato, a causa della stanchezza, e l’uomo si sbilanciò fatalmente. L’aquila osservò impotente la scena, vista tante volte nella sua lunga esistenza. Vide l’avversario trafiggere il sovrano e la calca sommergerne il corpo, un tempo venerato. Immaginò la paura degli ultimi istanti – che provano tanto l’imperatore quanto l’ultimo degli schiavi – quasi vide con gli occhi del morente, che guizzavano disperati in mezzo alle gambe corazzate dei giannizzeri, mentre la città cristiana moriva avvolta dalle fiamme del saccheggio.Il rapace attese ancora, non poteva svolgere il suo compito in mezzo alla rissa. Quando i turchi superarono i cadaveri dei difensori, dilagando, finalmente l’aquila scese sul terreno lordo di sangue. Nonostante la sua vista acuta, faticò a riconoscere il cadavere dell’imperatore, avvinghiato a quello dei suoi uomini e dei suoi assassini, nell’abbraccio livellatore della morte. Lo individuò dalle effigi che aveva sui calzari, raffiguranti proprio l’aquila imperiale. Dolcemente, il rapace si avvicinò alle mani dell’imperatore. La destra stringeva ancora la spada. Col becco, facendo attenzione a non ferirlo, gli sfilò l’anello col sigillo. Diede un ultimo sguardo alla capitale morente e si librò maestosa tra le volute di fumo in direzione del mare.Sotto di lei Costantino XI Paleologo giaceva trucidato in mezzo allo scempio della sua capitale. Gridando di disperazione al cielo, l’aquila si diresse verso il luogo in cui avrebbe custodito il sigillo finché l’istinto le avrebbe suggerito che, da qualche parte nel mondo, qualcuno sarebbe stato degno di indossarlo, rivendicando l’eredità di Roma e Bisanzio. Costantinopoli era morta e con essa le ultime vestigia del mondo antico. Nulla da quel fatale martedì 29 maggio 1453 sarebbe mai più stato come prima.

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